La fine di una viaggio, un nuovo inizio
Kampala 4 agosto 2007
Ultima tappa di trasferimento per Kampala. Una levataccia, questa mattina alle quattro, per poter essere in serata a destinazione, per le venti circa, ci dicono. Lungo il percorso faremo tappa al Parco Nazionale Marchison Falls, con le cascate del Nilo. Un’altra giornata piena. Nessuno poteva immaginare però quanto. In agguato ci saranno imprevisti ed errori di valutazione che stravolgeranno previsioni e tempi. Tutto ha inizio con una notte molto breve, troppo breve. Caratterizzata da un sonno molto disturbato, troppo disturbato.
Da un gallo decisamente sfasato che poco dopo la mezzanotte comincia a cantare. Da un cane che, ben appostato dietro la mia camera, fa il paio con il gallo ed abbaia in continuazione. Segnali di una giornata particolare. Da Lira partenza per il parco, con Giorgio e Cristina che, a bordo del fuoristrada, precedono il nostro bus. Verso le sette entriamo nel territorio del Marchison Falls.
Qui l’Africa si offre nella sua massima espressione. Distese di verde sulle quali stazionano elefanti e giraffe, bufali e facoceri, scimmie, antilopi e grossi felini. Si voltano ed osservano indispettiti il nostro passaggio. Qui è casa loro. Arriviamo sul Nilo, dove ci imbarchiamo per risalire il tratto di fiume che porta alle cascate, zigzagando tra ippopotami e coccodrilli a bordo di una robusta barca. Prendiamo maggiore coscienza di un ambiente unico, di una natura inimitabile.
Di un’Africa che rivela tutta la sua straordinarietà.
Il pranzo lo consumiamo all’interno del parco. Riso e fagioli, in alternativa semplici hamburger in piccoli panini, o improbabili spaghetti alla bolognese. A tratti piove. Alcune tende riempiono l’area camping, le piazzole pare siano tutte occupate. Anche i bungalows sembrano tutti occupati.
La strada per Kampala è ancora tanta. Sono le quattro, arriveremo in capitale all’una, dopo ventitre ore. Dopo essere rimasti bloccati nel pantano e nel fango di una strada praticabile solo da fuoristrada. Non dal nostro bus. Qualche sosta che Eddy, il nostro autista, ritiene opportuna per picchiare con il martello da qualche parte nei pressi del collettore o della marmitta. A destinazione incontriamo Carlo e Cristiana, responsabili di Cooperazione e Sviluppo, che raggiungeranno tra qualche giorno il Karamoja. Daranno disposizioni, organizzeranno i lavori, decideranno le tempistiche. Sono loro l’anima di questa onlus. Hanno lasciato la sede di Piacenza dove ora è rimasta Paola a coordinare i lavori d’ufficio, gestire i contatti, svolgere le pratiche necessarie. Una macchina, quella che Cooperazione e Sviluppo ha costruito, capace di dare risposte concrete alle esigenze di un popolo che vive in condizioni di estrema povertà. In questi nostri venticinque giorni di Uganda abbiamo potuto prendere coscienza dell’importante lavoro svolto sul campo da questa organizzazione. Interviene con progetti per l’installazione di pozzi d’acqua, per la fornitura di generi alimentari e beni di sussistenza, per il sostegno agli istituti scolastici e per tante altre situazioni. Negli ultimi giorni trascorsi a Kampala siamo, infatti, entrati dentro in altre realtà, per alcuni versi simili a quelle già viste in Karamoja.
L’Uganda, da nord a sud, da est ad ovest, è attraversata dagli stessi problemi, da drammi di una quotidianità difficile. Per cui, anche in capitale, sono numerose le strutture dove operano missionari e volontari in situazioni di grande difficoltà, a favore di persone dalle condizioni più disperate.
La visita ai Missionari dei poveri, un centro dove vengono accolti, seguiti e curati bambini, donne e uomini, affetti da malattie mentali e da altri gravi problemi di salute è stato forse l’impatto emotivo più forte di questa esperienza. Poi le scuole, condotte da insegnanti che con grande entusiasmo combattono situazioni di estrema difficoltà. Anche il Meeting Point ed altre associazioni costituite da donne affette soprattutto da AIDS, sono realtà importanti. Organizzate in una sorta di cooperativa producono articoli di semplice bigiotteria artigianale, collanine e braccialetti, cinture e tappeti ed altre cose da immettere sul mercato creandosi in tal modo un’economia propria. Anche queste realtà vengono sostenute dalla onlus presieduta da Carlo Ruspantini.
Tuttavia l’esperienza con loro sta volgendo al termine. Venticinque giorni dentro, a stretto contatto con il più grande male di questo nostro pianeta: la fame e la sete. La povertà. In tutta onestà e sincerità devo dire che le pagine riempite in questo reportage, per raccontare le immagini che si aprivano ai miei occhi, le emozioni che toccavano il cuore e lo stringevano in una morsa di dolore, non sono sufficientemente efficaci.
Non vi sono parole, non vi sono immagini capaci di raccontare le condizioni nelle quali versa questo popolo. Nulla potrà mai farmi dimenticare gli occhi di questi bambini, le loro mani tese, i loro sorrisi innocenti. I karimojong, i Lango, i Tepez, gli Acholi e tutte le altre tribù di questo paese hanno bisogno di cibo, di acqua, di pace. Come in tante altre parti di quest’Africa.
Ma c’è bisogno soprattutto di tanto cuore, di tanto amore, di tanto bene. Quello che questa gente merita. Non per conquistare la loro fede, non per una nuova forma di colonizzazione. Ma semplicemente perché è un’umanità che c’è.
E che chiede il rispetto delle proprie tradizioni, della propria cultura, della propria storia. Che nessuno ha il diritto di giudicare, tantomeno di ignorare.
Benvengano allora queste ottime iniziative che portano a diretta conoscenza di realtà apparentemente lontane, ma in verità vicinissime. La nostra più grande ammirazione, quindi, per questa gente che qui presta la propria competenza, che qui dedica il proprio tempo. Che alla comodità delle proprie case preferisce questi luoghi angusti, tribolati, di sofferenza.
La nostra più grande ammirazione ed il mio più sentito grazie a questa formula del Vieni e vedi che mi ha consentito di guardare negli occhi questi uomini dalla pelle nera, che mi chiamano “mzungu”, uomo bianco. Grazie a tutti i miei giovani compagni di viaggio, ragazze e ragazzi che sono la speranza di un futuro più giusto, che sono la speranza di un futuro di pace. E il più grande grazie a loro, a questi nostri fratelli d’Africa, capaci con un sorriso di farci pensare.
Di regalarci un messaggio sul quale riflettere. Capaci di aiutare noi a trovare quella strada che troppo spesso si perde. La strada della felicità, quella sulla quale si cammina mano nella mano, neri e bianchi, uomini e donne, bambini ed anziani. Tutti insieme lungo una strada di amore e solidarietà.
Lungo una strada che si chiama pace.
©Roberto Roby Rossi
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