Negli occhi dei bambini il dramma
Moroto 17 luglio 2007
Le luci che penetrano dalla finestra fanno intendere che questa mattina non risplende il sole. E’ un po grigio il cielo infatti, quando ci incamminiamo verso l’orfanotrofio. Passeremo lì questa prima parte della giornata. Dai nostri piccoli. Oggi porteremo loro le “tam tam”. Tante bambini per la strada ti corrono incontro e te le chiedono, porgendo il palmo della mano. Ma non è bene dare loro cose, di nessun genere.
Le tam tam sono caramelle. I bambini chiedono quelle, gli adulti chiedono soldi. All’interno dei villaggi chiedono anche vestiti. Spesso hanno addosso solo qualche straccio. Altre volte nemmeno quello. Ma è meglio evitare di dare qualunque cosa. Altrimenti si rallenta quel processo di crescita che deve consentire loro l’autonomia, l’indipendenza, per quanto è loro possibile.
La strada, è vero, è ancora molto lunga, ma passa anche attraverso questo. Pesa dire di no, non dare nulla, ma è giusto così.
Un sorriso e un saluto, invece, non si deve negare mai. Ed è così che ha inizio, appena usciti dal cancello, ma anche dentro il centro, il rito del saluto. Ejok, ciao come stai? in risposta ejok nooi, bene grazie e tu? Accompagnato dalla mano che ti agitano, che gli agiti. Attraversiamo la città, che mi fa sempre un po specie chiamare così, ripetendo ejok all’infinito, rispondendo ejok nooi a chi ti anticipa. Oltrepassiamo le baracche e il fiume nel quale si bagnano, lavano le poche cose. In un’acqua nera, infetta.
Giungiamo all’orfanotrofio, suor Maria ci viene incontro. I bambini sono là, un poco più lontani. Si decide di non distribuire le tam tam ora, ma nel pomeriggio ci penserà suor Maria. Come ieri, la stessa scena. Ti corrono incontro, si attaccano alle gambe. Ti guardano, vogliono salire in braccio. Si ricompongono esattamente gli stessi gruppetti del giorno prima. Chi è stato con te ti cerca. Gli hai dato un riferimento, una piccolissima sicurezza, non l’hanno dimenticato.
Poi le solite semplici cose. Un palloncino da gonfiare, qualche mattoncino per le costruzioni. Poco per divertirsi tanto. Per stare bene, almeno per quelle poche ore. Poi lo scivolo, l’altalena senza il seggiolino. Così li alzi, si attaccano con le mani alla sbarra alta e si lasciano dondolare.
Poi si lasciano cadere, li prendi e li porti a terra. E ridono, contenti. Vola anche questa mattina, le ore qui sono molto intense. Non c’è un minuto di sosta, un attimo di stacco. Sono lì, sempre con te. Un po ti chiedono di farli giocare, un po di tenerli tra le tue braccia. E di stringergli la mano. Senza mai lasciarla. Viene l’ora di lasciare l’orfanotrofio, di lasciare tutti questi bimbi. Serena è l’ultima ad arrivare. La vediamo avvicinarsi con due bambini. Uno in braccio, l’altro per la mano. Si ferma, si china per salutarli. Una carezza ancora, l’ultima. Viene verso di noi indietreggiando, continuando a fare ciao con la mano. Non voltando mai loro le spalle.
Già, perché non bisogna mai voltare loro le spalle. Sempre davanti a noi devono stare questi bambini. Anche quando non li vedremo più, dovranno essere sempre lì, davanti ai nostri occhi. Per non dimenticare, perché non si può dimenticare.
Lo stato d’animo di tutti noi è quello già provato, già vissuto solo il giorno prima. Il pranzo ci porta a discorrere di varie cose. E’ necessario staccare. Serve essere attivi. E reattivi. Sempre senza dimenticare, ma reagire. E nel nostro gruppo ci sono persone giuste per questo. Ragazze e ragazzi uniti, capaci di portare un segnale laddove c’è bisogno di credere, di sperare. Capaci di credere nel bene, nella pace. Capaci anche, al momento giusto, di staccare, di sdrammatizzare, di ridere, di scherzare. E’ funzionale a ricaricarsi, a riprendere energie.
Nel pomeriggio siamo in visita al St. Daniel Comboni Polytechnic School di Naoi, un piccolo centro a pochi minuti da Moroto. Suor Graziella ci accoglie e ci fa visitare la scuola. Attiva solo da quattro anni ha già diplomato diversi karimojon che hanno subito trovato occupazione. Visitiamo le aule e i capannoni, all’interno dei quali viene formato personale con corsi di edilizia, falegnameria, cucito. Conosciamo poi padre Martins, comboniano, irlandese qui da trent’anni. E’ direttore dell’Istituto. Qualche minuto con lui per capire che conosce il Karamoja come pochi. Salutiamo e lasciamo questo centro consapevoli che questa è la strada giusta. Quella di dare una preparazione a questa gente, una formazione. Un’istruzione che sta alla base di uno sviluppo possibile. Non certo vicino, ma possibile. Se voluto.
©Roberto Roby Rossi
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