Per alcune cose che fanno parte della vita, che sono nel mondo, non si riescono a trovare termini adeguati.
Non esistono parole per poterle descrivere. Nessun foglio scritto che possano raccontarle, rendendone l’idea. Impossibile spiegare qualcosa che anche gli occhi stentano a credere. Nella nostra cultura alcune verità, alcune realtà, non sono contemplate. La nostra vita scorre alla ricerca di cose sempre diverse, sempre nuove. La nostra energia è consumata dietro alla ricerca di una felicità che è diventata un’ossessione. Ciò che abbiamo non conta, non ha valore.
E’ ciò che non abbiamo che ci fa impazzire, che ci fa correre. E che quando abbiamo raggiunto, non conta più.
Un’umanità, la nostra, quella della gente come noi, quella che vive la parte del mondo cosiddetto “
del benessere”, che non si accontenta più di nulla, che non apre la finestra per salutare il nuovo giorno che è arrivato, per respirare l’aria e sorridere al cielo. Un’umanità che tiene gli occhi chiusi, che vive in un film come una comparsa.
Ma che vorrebbe essere protagonista. E che non accetta altro ruolo, producendo
insoddisfazione, insicurezza, solitudine.
E’ strana questa umanità, sempre più sfilacciata, sempre più disgregata. Sempre più allo sbando. Una società debole, che alla prima difficoltà, si attacca a qualunque spiraglio, al primo gancio. Nascono fedi smisurate in un attimo,
per Cristo e per Buddha, per Maometto o per altre divinità. Si baratta la propria anima in cambio di una parola, di una speranza, di una fede. In quel momento non conta più nulla, l’importante è uscirne vivo. La vita ci passa sopra, la subiamo.
Correndo, cercando, sbattendoci. Trovando mai nulla. E perdendoci, in questa continua dannata ricerca. E a quel punto vorremmo sparire, schioccare le dita e svanire.
Non abbiamo più nulla da dare. Si vende la propria dignità al miglior offerente. Quella dignità che dovremmo preservare invece, eccome. Quella dignità che consentirebbe di vergognarci e di reagire.
A tutto quello che è attorno a noi, di ingiusto, di spaventoso. Invece non ci indigniamo più di nulla. Tutti noi,
concentrati su noi stessi. E ripiegati sulle nostre insoddisfazioni, riversi sulle nostre miserie.
La nostra, una società, che mangia a tavola guardando la Tv, inghiottendo avidamente e riempiendoci di tradizioni&specialità. Che guardiamo telegiornali&biutiful senza capire, quando c’è, qual è la differenza. La nostra dignità ce la mangiamo ad ogni pranzo, ad ogni cena. E in tanti altri momenti.
La nostra dignità è morta qui, tra queste baracche di lamiere arrugginite,
tra i rifiuti a terra di queste strade di fango e di merda. La nostra dignità è morta con la loro, di quella gente che vive qui, che muore qui. A 2 anni, a 5, a 10, a 30. Dopo un’esistenza di stenti, di povertà, di fame. E’ morta e sepolta qui, sotto questa immensa fogna a cielo aperto, la nostra dignità.
Nairobi: visita agli slum di Kariobangi e di MathareQuesta mattina siamo in visita agli slum di
Mathare, uno tra i più grandi del
Kenya con i suoi oltre 500.000 abitanti e poi a quello di
Kariobangi. E’ impossibile avere dati certi, dentro queste baracche succede che si nasce e si muore con estrema facilità, con devastante velocità. Vengono rilasciati numeri e informazioni sempre molto approssimative. Ma sono tanti, tantissimi i poveri che abitano in queste fetide baracche.
Davvero troppi. La prima tappa è lo slum di
Kariobangi dentro il quale opera la
Outreach Community Center, dove conosciamo il
bishop Dan Ogutu. E’ una persona cordiale e piacevole “
conduco questo centro da più di dieci anni – ci racconta –
e qui dentro funziona una scuola primaria”. Ci accoglie una mattina fredda e grigia, la pioggia caduta nella notte rende il fondo una poltiglia scivolosa. Il suo ufficio si riduce ad una scrivania e qualche seduta, ma il calore di
Dan Ogutu rende questi pochi minuti piacevoli. “
Abbiamo in corso diverse iniziative a favore di questo slum, per migliorarne le condizioni – ci dice Dan -
ed altre sono in cantiere, al vaglio dei miei collaboratori”.
Conosciamo poi
Emma, una ragazza al servizio delle associazioni umanitarie che danno aiuto a questa gente. E’ con lei che andremo in visita allo
slum e alle famiglie. La sua professione di assistente sociale è quella che permette di avere maggiori contatti con la gente di qua. E che consente di conoscere più da vicino la drammaticità di queste realtà. “
Gli slum sono quanto di peggio si possa immaginare – ci racconta –
qui vivono famiglie di 6/7 persone mediamente in 3 metri quadrati di abitazione”. Dapprima stento a crederci, poi vedo con i miei occhi. Non ho parole. Quel che vedo è esattamente inimmaginabile, inenarrabile. Basta un po’ di pioggia come quella caduta nella notte, per fare di questo posto infernale, un luogo anche inaccessibile. A meno che non si accetti di camminare, per alcuni tratti,
dentro la poltiglia di fango, merda e rifiuti vari.
Così sono le stradine, oltre che strette ed insidiose, nelle quali scorre un interminabile fiumiciattolo che porta dentro un nerissimo, denso e maleodorante liquido. Ogni tanto si vedono alcune donne indaffarate nel togliere pezzi di copertone, borse di rifiuti, rami, bastoni e ferraglie che, ostruendo il passaggio, farebbero fuoriuscire questa melmosa sostanza che entrerebbe nelle loro case e nelle povere botteghe lungo la strada. Questa mattina dobbiamo rassegnarci e camminare in questo popò di fetore.
Con
Emma entreremo nelle abitazioni di alcune famiglie, parleremo con questa gente (
vedi qui).
Per la prima volta conoscerò, nei loro occhi, la vergogna. Perché se è vero che in questa gente ho sempre trovato storie della più nera miseria, è anche vero che non ho mai notato, nel loro spirito, la mancanza di una forte dignità. Anche nella povertà più estrema.
Qui no. Dentro queste baracche è andata morta e sepolta anche la dignità.
E con sé, la speranza. Sono racconti fotocopia, i loro. Che parlano di malattie, di morte, di sofferenza.
Seduti su una qualche sedia malmessa, o un improbabile divano, dentro uno spazio di 3 metri per 3, divisi tra zona giorno e zona notte solo da una tenda, parliamo prima con
Theresa, poi con
Ziipa, con
Jane e altre. Sono giovani donne, quasi tutte senza il marito, morto, nella maggior parte dei casi, per
AIDS. Hanno mediamente 4 o 5 figli, quasi tutti piccoli. Vivono lì dentro, tra lamiere arrugginite, in condizioni pietose, senza una speranza, senza credere più.
Hanno smesso a vent’anni, o anche prima, di credere. E di sperare.
Hanno un viso stanco, hanno occhi spenti. Che hanno visto poche cose.
Le peggiori al mondo.
Emma è con loro, vicino a loro. Chiede a loro di non mollare, di tenere duro. Perché, dice “
non sarà sempre così, non può essere sempre così”. Si commuove, vede i nostri volti provati. Camminiamo, per strada ci salutano, i bambini ci vengono vicino, ci prendono la mano.
Nicolò prende in braccio una piccola che si è attaccata ai suoi pantaloni. “
uotziurneim?” gli domanda. “
Liza”, gli risponde lei. Siamo fermi, mi guardo attorno ancora una volta. Guardo
Emma, gli chiedo se lei davvero ci crede ancora. Mi guarda negli occhi qualche istante, poi si gira verso
Liza e mi risponde “
io ci credo, lo devo fare, come potrei rimanere qui... ci credo per loro, per me, per te, per la mia gente”.
©Roberto Roby Rossi