Più che strade sono
strette strisce di fango e spazzatura, quelle sulle quali cerchiamo di camminare. Perché non è proprio come passeggiare, qui. E’ piuttosto un perpetuo saltare, per superare montagnole di un composto melmoso e puzzolente. Anche parecchio scivoloso. Devi stare molto attento a dove posi i piedi. Per una serie di motivi…
E’ vero che
John si muove decisamente meglio di noi, tra queste insidie. Lui qui ci è cresciuto, queste erano le sue strade di ogni giorno. Tra queste baracche ha passato gran parte della sua vita.
John è stato uno di
Kibera. Ha subito le regole di
Kibera. E’ cresciuto nella legge dello
slum. Ora lo vive dall’altra parte. Ora è lui a decidere come deve essere
Kibera. Come potrà diventare, con quali nuove regole, quali nuove leggi.
Ora vive
Kibera per cambiarla, non la subisce più, la combatte. Ci vuole forza, carattere, tenacia.
John l’ha avuta, lui potrebbe essere il testimonial di uno ideale spot per il sociale “
Via da Kibera”.
Via dalla miseria così devastante, dall’immondizia che la ricopre, dalle malattie e dalla morte, dai soprusi e dagli abbandoni, dall’ingiustizia. Via da
Kibera e da questa
Africa. E da chi la vuole così. Da chi ci marcia sopra, da chi ci lucra. Provocando vittime. Sono, tutti costoro, responsabili di un massacro.
Responsabili di crimini contro l’umanità. Ed invece, proprio loro, comandano il mondo!
John è fuori adesso dall’
incubo Kibera.
Ci racconta di quando viveva qui “
ricordo, avrò avuto 3 o 4 anni – ci dice –
quando un giorno mio padre ubriaco mi ha rincorso per lo slum”. Mentre ne parla, pare sorrida. Ma è innaturale, forzato. Soffre quel ricordo “
mi chiusi dentro un bagno – continua –
tremavo e piangevo, perché già altre volte mi aveva picchiato, lasciandomi segni e tagli”. Sul viso, ancora da ragazzo, ha piccole cicatrici, una un po’ più grande “
lui continuava ad urlare che quando mi avrebbe preso mi avrebbe ammazzato – si fa ora più serio –
allora non tornai a casa, quella notte la passai lì”. Fa segno con il dito la discarica, montagne di rifiuti, dove in questo momento riposano distesi due maiali ed un grosso cane. Non gli chiedo come andò a finire e se ritornò a casa. Preferisco non sapere, poi c’è poco da immaginare.
La stradina in fango e immondizia si fa, ad un certo punto, ancora più insidiosa. Si sale e si scende, sfiorando con la testa i bassi tetti in lamiera che minacciano, con aguzze punte che aprirebbero la carne come un apriscatole. Si scivola in continuazione. Un piede dentro il fiumiciattolo nero che scorre ad un centimetro da noi significherebbe infezioni certe.
Magari un bel “
gigas”, un verme che si attacca alle ferite o che entra sotto le unghie e che mangia piano piano, senza accorgersene. Ad un certo punto una bella macchia bianca attorno ad un puntino nero, segnala la necessità di un veloce necessario intervento. Si incide la parte, la si apre e si asporta con una pinzetta l’amico
gigas.
Chi riesce ad intervenire in tempo, altrimenti... Rincuorati da questa bella notizia, è automatica la maggiore precarietà con la quale procediamo. Ora abbiamo un’ansia in più.
Incontriamo
Maurice,
un amico di
John, due chiacchiere e ci porta a casa sua. I soliti 3
metri quadrati, la solita improbabile serie di sedute, la solita
tenda che divide la zona giorno dalla zona notte.
Maurice ha 22 anni,
è un ragazzo alto e magro, dal viso cordiale. Ci parlerà della sua
storia (
vedi qui),
ma anche del suo impegno al fianco di
John. Anche lui è forte, ha
carattere, ha scelto di combattere per lui e per la sua
gente. Troveremo tanti
John, tanti
Maurice qui a
Nairobi. C’è
bisogno di loro qui.
Almeno per continuare a credere. E per dare un
segnale a chi, come loro, non vuole rassegnarsi.
©Roberto Roby
Rossi