martedì 15 ottobre 2024

Nello slum di Soweto

con Mino e i ragazzi l’Associazione Papa Paolo XXIII

Nello slum di Soweto
Conosciamo Mino per caso, una delle tante mattine che mi trovo immerso nel caos urbano di Nairobi. Alla fermata di un matatu, con Nicolò, siamo diretti in visita alla sede di Amref. Un incrocio di sguardi con un ragazzo di bassa statura, sui 25 anni o poco più, anche lui in attesa del matatu.
Si capisce che non è un turista (che qua sono pochi) e ha caratteri del viso di tipo mediterraneo. Pochi minuti dopo ci siamo già conosciuti ed abbiamo concordato di trascorrere una giornata insieme, ospiti da lui allo slum di Soweto, dove svolge la sua attività di volontariato. Mino è una persona diretta, semplice, concreta. Una di quelle con le quali è un piacere discorrere, mai nulla è detto così per caso, tanto per dire.
E’ stata questa la prima impressione, il tempo che trascorreremo insieme mi confermerà che non mi ero sbagliato. “Sono qui da 8 mesi – esordisce Mino – ma credo che rimarrò per altri 3 anni”.
Scambio un’occhiata con Nicolò, siamo un po’ basiti. Così è Mino, con una semplicità disarmante ti dice che trascorrerà qui tutto questo tempo. Ha 28 anni e viene da Bari, ha una famiglia normale, con la quale vive in armonia. Opera per l’Associazione Papa Paolo XXIII che ha la base operativa locale all’interno dello slum di Soweto, alla prima periferia di Nairobi. Con lui un gruppo di ragazzi volontari che hanno deciso di dedicare tempo ed energie alle diverse iniziative promosse dall’associazione. Vivono in una quindicina all’interno di una baracca, una delle tante di questo slum. Una baracca come tutte le altre, per vivere alla pari degli altri 8000 abitanti che popolano Soweto.

E’ un venerdì mattina quando, con Nicolò, raggiungiamo lo slum. Ad aspettarci troviamo Enrica e Giancarlo. Sono due ragazzi, tra i 25 e i 30 anni. Sono qui da 8 o 9 mesi circa, come Mino. Loro rientreranno alla fine di questa esperienza che terminerà ad ottobre.
E’ certo però – dice Enrica – che comunque ritorneremo qui, magari per seguire uno dei tanti progetti dell’associazione”. Parlano trasmettendo serenità, Enrica e Giancarlo. Li hai incontrati solo 5 minuti prima, ti sembra di conoscerli da sempre. Hanno la pace dentro, è evidente che sanno quello che vogliono. Loro, come tutti quelli che conosceremo lì, a Baba Jetu, la loro baracca di Soweto. Baba Jetu, Padre Nostro in swahili, è la loro casa, ma anche un ritrovo, un rifugio aperto a tutti. Posiamo lì i nostri zaini, in uno stanzone, il primo che si apre dietro una piccola porta in legno e lamiera. E’ la sala dove si pranza e ci si intrattiene.
E’ stretta, lunga, buia. Quasi interamente occupata da bassi tavolacci, fatti da assi in legno, un po’ alti, altri più bassi, che si poggiano su fusti in latta. Tutt’attorno vecchie poltrone e divani, tutti diversi, malmessi, in ferro o in plastica o in legno. Sopra la testa una distesa di sacchi di cellophane che portano una scritta “sweet meal” a coprire le lamiere che fanno da tetto. Null’altro. Una porta di fronte conduce al cortiletto interno, un’altra sulla destra alla cucina.
Enrica
legge bene i miei occhi. Si, è vero, sono curioso, vorrei subito visitare Baba Jetu. Scoprirò un ambiente tetro e cupo, al limite della vivibilità. O anche oltre il limite. La cucina è una grossa pietra ad angolo, da una parte un incavo fa da lavandino, dall’altra lo scaldapentole, un largo foro dove si mette il carbone. Le pareti sono annerite dalle nuvole di fuliggine che si levano ad ogni cottura.
La zona notte niente di meglio, anzi… Una struttura in legno, accessibile dal cortiletto interno, che ospita due stanzoni, al piano sopra le ragazze, sotto i maschi. 4 letti a castello per ognuno, non un guardaroba, un qualunque armadio, un tavolino, qualche sedia. Nulla. Borse e zaini sono a terra.
Lateralmente, una parete con sbalzo offre l’opportunità di un minimo appoggio, a mò di mensola. Nicolò saggia i letti con una leggera pressione della mano sui materassi. Che affondano. “Bene – esclama – sarà come dormire sull’amaca…”. L’amaca rimane con una prolungata “a” finale, accompagnata da un balzo all’indietro. Un ragno di ottime dimensione gironzolava tra i suoi piedi, pronto a rifugiarsi proprio sotto quello che sarebbe stato il nostro letto per queste notti. Che era ormai certo, non sarebbero stati di sogni d’oro.
Ma vabbè! Dulcis in fundo, i bagni… che dire? Meglio sorvolare, o forse è sufficiente sapere che era necessario prendere bene la mira perchè altro non era che un buco a terra. e anche poco grande! Sono tutti spazi stretti ed angusti, la luce è data dai pochi pannelli solari che non consentono di coprire l’arco dell’intera giornata.

L’acqua è poca e fredda. L’igiene è quel che è. Si mangiano tre cose: patate e matoke (piccole banane) lesse, ugali che è una specie di polenta, pastosa e dannatamente pesante, ed una purea da un’inquietante colore verde militare.
Questa è Baba Jetu, la casa dove questi ragazzi trascorrono giorni, mesi, anni. All’elevato senso di adattabilità necessario per vivere qui dentro, fa da contraltare il bellissimo spirito di condivisione che unisce questi ragazzi. E questa è la loro forza. Il senso di comunità, di appartenenza, laddove, spogli di ogni orpello, si vive nella povertà, nelle condizioni più estreme. Le stesse del popolo di Soweto.
Questi ragazzi vivono qui, hanno lasciato la loro casa, gli amici, le comodità, gli agi. Dove torneranno fra mesi, fra anni. Ora camminano al fianco di questa povera gente, con loro condividono ogni momento della giornata, tutti i giorni. Le problematiche di una vita di stenti, dove la miseria è di tutti. La fame, le malattie, la morte sono la quotidianità.
Loro sono lì per portare un contributo. Chi spinti da una fede, chi solo dal proprio cuore, dall’amore per il prossimo, per la vita. Operano ogni giorno dentro le realtà più drammatiche, sostenendo progetti a favore dei bambini malati, dei children street, delle mamme sole, dei carcerati. A favore di un’umanità abbandonata, dimenticata.
Con Mino, Enrica e Giancarlo, conosciamo anche Diletta, Adriano, Francesca, Daniela, Giampaolo, Davide e tanti altri, tanti angeli. Oppure no, semplici ragazzi che hanno preso la loro vita tra le mani. E che gli hanno dato un senso. Quello di dedicarla agli altri, a chi ha più bisogno, a chi è stato meno fortunato. Ai poveri di Soweto. Ai bambini, alle donne, agli uomini degli slum, di queste baraccopoli. Di queste fogne a cielo aperto che, in questo caso, grazie ad uno specifico progetto di pulizia e cura dell’ambiente sostenuto da questi ragazzi, appare decisamente più accettabile.
Anche se sempre di baraccopoli si tratta.

Tre notti nello slum
Passiamo qui a Baba Yetu 3 notti. Con Mino andiamo in visita all’istituto di recupero minorile “Kamiti Prison” presso il quale l’Associazione Papa Paolo XXIII opera con un progetto di sostegno ai detenuti. Si tratta di ragazzi che hanno commesso piccoli reati, come il furto o l’uso di sostanze stupefacenti. La detenzione è sempre di 4 mesi. Mino e gli altri volontari organizzano giochi, insegnano a confezionare collanine e braccialetti che venderanno sui banchetti, portano dentifricio, sapone, biancheria e altri indumenti.
Si propongono, così, come un riferimento per quando, questi ragazzi, saranno fuori da qui, magari senza una casa o una famiglia. Quello che possono trovare invece a Baba Yetu. Sono iniziative importanti che offrono una possibilità in più.
Mino
mi lascerà, prima di partire, un fascicolo che elenca tutti questi progetti. Lo sfoglio, riguardano l’istruzione, l’alimentazione, i children street, i malati di Aids, le adozioni a distanza, la sicurezza, la pulizia dello slum. E poi tanti altri, che fanno la differenza, che consentono una vita meno difficile, o comunque, più accettabile.
Per far capire il valore della cooperazione, dell’aiuto reciproco, della solidarietà. Ed è così che si è costituita, in questo piccolo slum, una comunità più unita, che nutre più fiducia in un futuro migliore, in una vita più normale.
Saranno giorni, anche questi trascorsi a Baba Yetu, intensi, emotivamente e fisicamente. Qui, tra loro, dove tutto è di tutti, in piena intesa, in perfetta armonia. In totale condivisione. Torneremo, il giorno prima della partenza, a salutarli, a ringraziarli.
A dir loro di continuare così, perché è di loro, di gente così, che questo mondo ha bisogno. Oggi più che mai.

©Roberto Roby Rossi

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